Intervista allo scrittore in occasione della presentazione del nuovo volume in Valle d’Itria
“C’era una volta un vecchio che si era innamorato di una meravigliosa ragazza”. Comincia così la “Fiaba d’amore” di Antonio Moresco, volume presentato a Locorotondo qualche giorno fa. Un incipit che rimanda alle favole classiche, ma il libro di Moresco prende immediatamente una direzione diversa, spiazzante, come abitudine per lo scrittore nativo di Mantova e residente a Milano. Non a caso, i suoi libri, da “Gli esordi” ai “Canti del caos”, da “Gli incendiati” alle “Lettere a nessuno” sono sempre stati spiazzanti, si sono sempre posti sul crinale del baratro esistenziale, dello “sbrego”, della ferita che in Moresco apre le porte alla letteratura. “Le fiabe – ha infatti spiegato lo scrittore durante la presentazione alla libreria “L’approdo” assieme al critico Giovanni Turi – sono eccessive, ti portano all’osso delle cose. Noi abbiamo bisogno dell’impossibile, dell’imprevisto, altrimenti siamo fottuti, sia come singoli che come specie”. Moresco continua a cambiare genere, da un libro all’altro, perché “per uno scrittore avere un target vuol dire prendere per il culo il lettore, il prossimo”.
Moresco è fatto così e lo dimostra anche nell’intervista che ci ha concesso, che abbiamo pubblicato sullo scorso numero del settimanale e che proponiamo anche qui, dopo le richieste dei nostri lettori.
Ormai ha scritto più di una dozzina di libri, eppure per lei sembra sempre un nuovo inizio. Possiamo parlare di esordio anche in questo caso?
Sì, perché io non sono uno scrittore che svolge questa attività per intrattenere il lettore. Spesso i miei libri hanno un legame con la mia vita, per cui ogni volta sento lo strappo, come all’inizio. Non mi è mai successo di scrivere un libro e non sentire lo “strappo”.
Lei è uno dei pochi scrittori che torna al vero senso della letteratura, quello della apertura di mondi possibili e il suo linguaggio e le sue metafore lo insegnano. Cosa è la letteratura e cosa è diventata nell’epoca dei social network?
Secondo me la letteratura, se non è esperienza, avventura, rischio, non è una cosa che possa interessare. Sto sempre in questa cruna, in questo passaggio. In quest’epoca la letteratura raramente è vissuta così, ma è vissuta sempre più come intrattenimento. Per me, invece, è avventura, esplorazione del mondo, apertura radicale del possibile. La letteratura è importante se sta in questo terreno autentico e trova in ciò la sua nobiltà.
A proposito di intrattenimento: lei ha vissuto diversi anni senza televisore in casa. Anche adesso continua a vivere così?
In realtà in questi ultimi anni ho acquistato la televisione per la mia nipotina, così quando viene a trovarmi può vedere i cartoni.
Non deve essere facile passare dai “Canti del caos” a Peppa Pig…
Non ne parliamo: non so come possa piacere un cartone del genere: ho provato a vederlo, ma è bruttissimo.
A chi scriverebbe oggi le “Lettere a Nessuno”?
Chi lo sa? Penso che sarebbero davvero lettere a nessuno: oggi, forse non le scriverei proprio a nessuno.
Che spazio c’è per lo sbrego rivoluzionario nel XXI secolo?
Ho smesso di pensare che nella dimensione politica e sociale si possono ottenere mutamenti duraturi. Si tocca solo la punta dell’iceberg, ma quello che rimane sotto non muta. Il fallimento storico delle rivoluzioni lo dimostra. Vivo la letteratura in maniera rivoluzionaria e mi permetto di andare a toccare zone più profonde della vita.
Nel libro-intervista con Massimiliano Parente di qualche anno fa, si evince che la sua modalità esistenziale la porta ad un perenne autodafé sulla sua vita precedente. Quanto è difficile vivere in questa maniera, come una sorta di Penelope del nuovo millennio?
Sono nato in questo modo come scrittore, come rivoluzionario e questo è rimasto dentro di me. Non sono uno che scrive uno, due, tre, quattro libri tutti uguali. Moravia, per fare un esempio tra tanti, abituava il lettore ad un certo tipo di libri. I miei libri sono diversi uno dall’altro, è come se ogni volta avvertissi l’esigenza di strappare il tappeto da sotto i piedi. Per me è indispensabile essere così e sono così.
Ha parlato di restaurazione per spiegare l’attuale periodo culturale italiano, ma ha detto che bisognava trovare una parola migliore per descrivere questa situazione. L’ha trovata?
La parola restaurazione era scarsa allora – nel senso che non diceva tutto, ma ha suscitato molte reazioni negative – e lo è anche adesso. In “Fiaba d’amore” si parla del mondo dei vivi che è uguale a quello dei morti: la restaurazione stessa è la morte.
Chi sono i vivi e chi sono i morti?
Non voglio dare patenti di esistenza o mortalità. Non voglio fare la parte del giudice perché sono stato così giudicato nel passato che non voglio fare le pagelle su chi è vivo e su chi è morto.
Domenico Fumarola