Di seguito il testo del discorso di Francesco Schittulli, presidente della Provincia di Bari, per l’inaugurazione della Fiera del Levante:
Il 18 agosto scorso Ella, on. Presidente Letta, ebbe a dire a Berlino che il prossimo semestre italiano europeo: “può essere l’inizio della nuova Europa”.
Se mi permette, io credo che debba essere anche l’inizio della nuova Italia che Ella responsabilmente rappresenta e che necessita di interventi giurisdizionali e strutturali (un tangibile esempio è la petizione lodevolmente proposta dalla Gazzetta del Mezzogiorno per TAV Adriatica).
Ed in questa nuova Italia voglio immaginare e sperare in un nuovo Mezzogiorno, libero da orpelli, illusioni e bugie politiche.
Un nuovo inizio lo auspico anche per la Fiera del Levante che, nella ricerca di nuovi significati, sappia trovare proprio nell’economia della crisi la sua innovativa rinascita attraverso la privatizzazione, passaggio già previsto con lungimiranza dall’allora Presidente della Regione Puglia R. Fitto, resasi ormai indifferibile per reggere le sfide di un futuro sempre più competitivo e selettivo, soprattutto alla luce dei noti disastrosi risultati di questi ultimi anni.
Senza, però, perdere le sue preziose radici di simbolo di un Mediterraneo di pace e di incontri.
In questo auspicio di nuovo inizio c’è, soprattutto, la speranza di ritrovare “normalità e pacificazione” in un Paese sempre più incattivito.
Esigenza insopprimibile, ma che ha forti resistenze di apparati che basano le loro fortune sulla frammentarietà dei poteri, la congestione di una normativa sempre più confusa e proveniente da più fonti, il rinvio delle responsabilità tra Enti.
Come ormai noto la consiliatura provinciale si avvia alla conclusione, dopo circa tre anni impiegati a capire se le Province potessero continuare ad esercitare il proprio ruolo, peraltro positivamente valutato dalla Corte dei Conti e dal recente pronunciamento della Corte Costituzionale che ha bocciato su tutta la linea l’impostazione della riforma voluta dal Governo Monti.
Ma le Province, anello debole a livello politico-istituzionale, sono state e continuano ad essere oggetto di una campagna mediatica scorretta, a senso unico, dalle fortune editoriali di taluni giornalisti-scrittori, a dir poco demagogica e senza precedenti.
Il credo era ed é risparmiare tout court: uno slogan vuoto, privo di contenuti, non documentato attraverso dati reali diffusi dalle fonti ufficiali. Quasi recitato a memoria senza capirne l’importanza, all’insegna della lotta agli sprechi, che erano invece e sono altrove.
Senza aspettare la ventilata riforma di riscrittura della architettura costituzionale dello Stato, con un tempismo senza precedenti, si é voluto anticipare l’abolizione delle Province delegittimandole, svuotandole di ogni competenza, nell’intento di dare in pasto all’opinione pubblica una delle soluzioni alla crisi economica che attanaglia il Paese.
Ci saremmo aspettati, invece, dopo la lezione inferta dalla Corte Costituzionale, di ragionare non solo su quale modello avrebbe potuto sostituire quello esistente radicato sul territorio, magari prevedendo anche l’abolizione delle Province. Ma avremmo voluto essere parte attiva di un nuovo archetipo di nazione sicuramente più snello ed efficace per la nostra esperienza maturata sul campo, attraverso una discussione comune, partecipata, in vista di modificare un sistema che, così com’è oggi, non regge più alle sfide del nuovo millennio.
Ragionare, cioè, di una riforma complessiva delle istituzioni che partendo dalle Amministrazioni statali, passando per le costose e dispendiose Regioni e tutta quell’accolita di sovrastrutture centrali e periferiche alimentate con risorse pubbliche, ridisegnasse poteri e competenze dei diversi livelli di rappresentanza dei cittadini.
Ma, premesso tanto, senza alcuna rivendicazione corporativa, tantomeno personale, voglio solo aggiungere che ormai, se l’intervento sulle Province dovesse essere affrontato nei termini in cui sembra essere avviata la nuova iniziativa governativa, saranno devastanti i suoi effetti.
Perché il risultato finale vedrà crescere a dismisura gli apparati dello Stato, che tutti avremmo voluto più celere e dimagrito nelle sue molteplici articolazioni, al quale si sommerà un centralismo regionale, già cresciuto in questi ultimi anni in maniera esponenziale con centinaia di Enti paralleli e Organismi, che produrrà, in aggiunta alle migliaia già esistenti, ancora altri enti, agenzie, autorità, società pubbliche, aziende, consorzi, e quanto di più disastroso.
E tutto ciò affossando viepiù la finanza pubblica, pesando sull’architettura istituzionale, appesantendone i costi, con ingerenze, rallentamenti burocratici, strutture pseudo-politiche, forse più attente alla dispersione che alla concentrazione di risorse e investimenti, a danno dell’imprenditoria e dei cittadini.
Comunque, come l’ultimo Presidente della Provincia di Bari, in qualsiasi direzione si dovesse andare, assolverò sino allo spirare della consiliatura ai miei doveri di amministratore scelto ed eletto direttamente dai cittadini. E nonostante i tagli lineari governativi, operati senza alcun criterio discretivo, farò di tutto perché siano erogati quei servizi minimi essenziali ed indispensabili in favore delle comunità locali che, con molte difficoltà, vengono assicurati a fatica quotidianamente.
Avviandomi alla conclusione, voglio rappresentare, anche, un disagio che in questi anni continuo ad avvertire come cittadino e amministratore. Un disagio cresciuto in modo esponenziale e contrario alla mia formazione culturale, via via seguendo gli insegnamenti e l’esempio, in particolare, di Aldo Moro che, con buon senso, sono certo avrebbe reagito con fermezza e concretezza alle questioni che agitano il nostro tempo, rappresentato da un serpeggiante stato di impotenza, da una sorta di fatalismo che pervade tutti.
Per cui si avverte quasi l’impressione di non poter fare nulla per cambiare questo Paese, abbandonato, ormai, a vivere la quotidianità con ansia e smarrimento, quasi con rassegnazione.
Noi di Terra di Bari, nonostante Maestri della statura appunto come Aldo Moro, non siamo stati capaci di continuare e concretizzare quelle intuizioni e seguire quei percorsi delineati e ben tracciati, dove i politici avevano un compito preciso da assolvere. E cioè quello di doversi misurare con i bisogni della gente, comprendendone la portata, e preoccupandosi di rappresentarli nelle diverse sedi istituzionali per almeno tentare di superare quel “gap” che ancora oggi ostacola la crescita culturale, sociale ed economica della nostra società, ed in particolare di quella meridionale.
E’ prevalsa, invece, la politica degli annunci, dove i poteri dello Stato hanno evidenziato tutti i loro limiti, dimostrando di non avere quegli anticorpi che democrazie evolute mettono in campo per reprimere simili incivili barbarie, preferendo, se non addirittura sollecitando impropriamente, iniziative di supplenza da parte della Magistratura.
Come la Magistratura, impegnata con difficoltà a dimostrare la sua terzietà, altri importanti settori della nostra società stentano a ritrovare le ragioni profonde della loro stessa missione originaria. Si pensi, ad esempio, alla comunicazione mediatica più fiancheggiatrice del potere, se non proprio – in alcuni casi – più “voce dei padroni”, che strumento per parlare il linguaggio della verità. Così come la competizione insana tra categorie ed associazioni, divenuta con il passare del tempo vere e proprie corporazioni, chiuse ermeticamente a difesa dei rispettivi privilegi. E ciò in tutti i settori della vita sociale ed economica del Paese, non più al passo dei tempi e del contesto in cui si muovono le dinamiche del mondo del lavoro, dell’impresa, dell’associazionismo in genere. Sempre pronti solo a dividersi, così come a riunirsi e a compattarsi per far prevalere gli interessi, più della casta che quelli più generali della comunità.
Noi abbiamo bisogno, sig. Presidente del Consiglio, di ricreare ad ogni costo un clima di “normalità”.
Fare cose necessarie per il Paese, riconquistare quella dignità della politica che deve parlare alla sinistra, alla destra, ai movimenti, alle forze del civismo, della legalità, della cultura e del lavoro, anche creativo.
Dobbiamo tornare, come ci è stato insegnato, a lottare contro le diseguaglianze più crude e oscene dei nostri tempi, senza allontanarsi dal mondo civile dei diritti. Dobbiamo trovare la capacità di trasmettere il senso della vita, non pensando che alcune soluzioni dei problemi possano passare precludendo ai padri, per dare ai figli.
Tocca a noi unire quei due mondi, non di dividerli.
La politica, in particolare, che oggi ha un clamoroso deficit di elaborazione e comprensione del mondo, deve essere intesa come impegno e passione, anche nei suoi tratti di ingenuità.
Per nessuno, o quasi, deve essere un ascensore sociale.
Insomma, dobbiamo aspirare a vivere una vita”normale”.
On. Presidente Letta, lo dico con umiltà, sono il più longevo nel porgerLe questo mio sincero, augurale saluto di benvenuto in Terra di Bari, perché come disse Giobbe: “È nei vecchi la sapienza e negli anziani la conoscenza”.
Ella, Presidente Letta, sta lavorando e lavorando bene. Continui a lavorare! Come ha sempre fatto e sono convinto continuerà a fare, nell’esclusivo interesse del nostro Paese.
Apra alla speranza, perché abbiamo bisogno, tutti insieme, di un Governo che sappia ripristinare il rispetto delle regole, riconoscere e garantire i valori della persona, della meritocrazia giovanile in particolare, perseguire il diritto ad una “giustizia sociale”, seguendo principi di libertà, tolleranza e solidarietà.
(foto: repertorio, fonte quotidianodibari.it)